Chiedi alla strada

Gioacchino Criaco
06/06/2021

La Statale 106 è il canone inverso, l’unico fiore di un'agave morta da tempo che sopravvive al di fuori della storia. Una poesia lunga 491 chilometri che va percorsa da Sud verso Nord. Per capire il mondo abbracciato dallo Jonio.

Chiedi alla strada

È la prospettiva che è diversa: Carlo Levi bloccò Cristo a Eboli, l’autostrada del sole, in anticipo, si fermò a Salerno e concesse in appendice la Salerno-Reggio Calabria. Il Sud al termine della discesa rappresenta una narrazione unica, per questo fallace. Pasolini comprese l’errore, nel 1959 (La lunga strada di sabbia), e capì più di altri il Sud, capì più di molti calabresi la Calabria, ne fece una profezia che ancora oggi si rivela a ogni alba. Cambiò prospettiva: discese. Poi a Reggio resettò il proprio viaggio: partì dallo Stretto, come se fosse l’inizio. Montò il serpente viscido che da Reggio portava a Taranto, passava per tre Regioni, Lucania compresa, e 491 chilometri, un terzo dell’Italia. A Cutro scoprì la terra bandita, un mondo in travaglio che man mano usciva dalla storia: e magari l’ha visto, Rino Gaetano, che nel ’59 era ancora lì, che aveva otto anni, che forse proprio in quel momento si prese il testimone per raccontarlo il Sud, ancora da una prospettiva inversa.

Lo Jonio contiene la Statale fra spasmi di sabbia rovente e macchie amare di eucalipto

Ma i poeti non campano molto, insieme a loro si perde il racconto che sorprende, quello inaspettato. Sulla 106 l’agave se ne sbatte della vita lunga, s’immola al cielo dello Stretto per un unico, insuperabile orgasmo. Il catrame corre veloce, impaurito dal pugno al cielo di Pentedattilo; penetra calanchi grigio azzurri che assediano il Promontorio di Eracle, si confonde nell’idioma composito, fra greco, armeno, aramaico, arabo, latino, arbereshe. Lo Jonio contiene la Statale fra spasmi di sabbia rovente e macchie amare di eucalipto che profumano il fiato alle Nereidi di Casignana. I Bronzi vigilano ancora sul Cocinto, alimentano in segreto le tartarughe in agguato sotto la rena, in attesa della marea buona per guadagnare il buco nero verso l’Oceano.

 

Il frigo a pozzetto nelle stazioni di servizio ha ancora i gelati della Gelca, sogno di panna calabrese, di un’industria assorbita dai grandi marchi nazionali, annegato

 

L’aria tremola intorno a corriere partorite di botto da un 70 senza nostalgia che si portano la vita giovane altrove: Trenitalia chiude le stazioni e compra bus, le compagnie di viaggio sono l’unico investimento redditizio, con corse che si duplicano, triplicano… Il frigo a pozzetto nelle stazioni di servizio ha ancora i gelati della Gelca, sogno di panna calabrese, di un’industria gelatiera assorbita dai grandi marchi nazionali, annegato. Battiato sconta la propria condanna perpetua, ricantando all’infinito le ere del cinghiale bianco, che sopravvivono nei juke box grazie ai porcellini di terracotta carichi di cinquanta e cento lire. Le Peroni e le Dreher riposano esauste nelle cassette di plastica gialla e verde, assistendo agli spettacoli di illusionisti che ipnotizzano i clienti dondolandogli davanti agli occhi la chiave inglese con cui si guadagnano da vivere cambiando bombole di gas che non cedono al metano in rete.

I sogni industriali diventati incubo: dalla Liquichimica all’Ilva

I calabresi tirano giù il finestrino delle Littorine che sbuffano a diesel contro un cielo celeste Madonna, intonano canzoni da Messico lungo un binario solitario, le note s’incanalano nei letti secchi delle fiumare, salgono in montagna a rinfrescarsi con “l’allegria” degli ultimi pastori d’Oriente. La Statale va da Reggio a Taranto, attraverso il sogno industriale di Saline Joniche, di Crotone e della Puglia. L’incubo: dalla Liquichimica all’Ilva. Mille e rotti miliardi di un pacchetto Colombo che avrebbe dovuto trasformare il Sud, nel 1970, finiti nei feudi locali che sopravvivono ancora al medioevo. 360 miliardi a Saline Joniche avrebbero dovuto realizzare uno stabilimento grandioso, solo che le bioproteine che si dovevano sfornare erano altamente cancerogene, fatto già noto prima del progetto. Il progetto nacque e morì immediatamente, aprendo giusto il tempo di assumere centinaia di disperati, andati poi in pensione senza aver mai praticamente lavorato, con la distruzione di un mondo delle meraviglie che da un balcone sul mare stava fra l’Aspromonte e l’Etna.

Ai calabresi e i siciliani è stato rubato il tempo futuro. E se n’è accorto solo Sciascia

Le industrie di Crotone hanno visto la luce solo per produrre una classe di sottoproletari, una generazione di vittime dell’eroina e lo scenario di una postmodernità che la modernità non l’ha mai incontrata. Un incubo industriale arrivato in Puglia, unendo indissolubilmente la possibilità di vivere a quella di morire: l’Ilva. La Statale 106 è un attraversamento nel deserto: il deserto che da Cutro porta a Crotone, senza la poesia dei suoi banditi pasoliniani, muore di gigantesche pale eoliche che producono un’energia elettrica che viene mandata fuori senza limare le bollette calabresi; pale madri di un refrigerio castrato, che non potranno mai imitare le creature di un palmeto, l’oasi resta miraggio.

 

La Statale 106 è il canone inverso, l’unico fiore di un’agave morta da tempo, che sopravvive al di fuori della storia

 

Sopravvivono i dittatori locali che vestono abusivamente, e in proprio, i panni dello Stato; sopravvivono predoni antichi che, fra le altre cose, la più importante, hanno razziato la lingua, portando via insieme a lei il futuro nei verbi, lasciando un dialetto romanzo che biascica frasi incomprensibili, declinando la vita fra presente e passato: i calabresi e i siciliani non possono dire farò, sognerò, mangerò. Ma nessuno se n’è accorto a parte Sciascia. L’avvenire si mette tutto fra le incompiute, il non finito calabrese contiene tutta la speranza di un Sud che non ha più poeti. La Statale 106 è il canone inverso, l’unico fiore di un’agave morta da tempo, che sopravvive al di fuori della storia. È una poesia troppo faticosa da comporre: 491 chilometri da fare in salita, da Sud verso Nord. La Statale 106 vive, anche lei è poeta, declama la sola poesia che ha composto: «Scendono i plenipotenziari dei partiti, come consoli. A imporre non a discutere. E la mia terra muore, prima di vergogna che di fame».